Blade Runner: Androidi ed esistenzialismo. Cosa significa essere umani?
Blade Runner è un titolo cinematografico diretto da Ridley Scott e ispirato al libro “Ma gli Androidi sognano pecore elettriche?” del celebre Philip K. Dick, padre del cyberpunk. L’adattamento audiovisivo, considerato una pietra miliare all’interno del panorama fantascientifico, esplora, in un futuro distopico, il legame tra uomo-macchina ponendo un quesito fondamentale: cosa vuol dire ‘essere umani’?
Blade Runner: la trama del film
La storia di Blade Runner segue le vicende del mercenario di androidi Rick Deckard, in una Los Angeles che fa da quadro di una Terra disastrata a causa di inquinamento e sovrappopolazione; una nube tossica oscura perennemente il cielo di una civiltà sull’orlo dell’estinzione (se vi interessano i film che parlano della fine del mondo e una denuncia alla società attuale abbiamo recensito anche Don’t Look up). Lo stesso Rick Deckard incarna il sentimento di un’esistenza dura in una città morente, malata e insanabile. L’unica possibilità di salvezza per gli abitanti del pianeta è raggiungere le “Colonie Extramondo”.
Obbiettivo di Deckard è dunque “ritirare” 4 modelli di androidi ‘Nexus-6’ che sono fuggiti dalle colonie extramondo per rifugiarsi in una Terra inospitale. Scelta curiosa, quella del termine “ritirare”, in quanto l’azione di Deckard consiste propriamente nell’eliminare i Nexus-6, ossia porre fine alla loro vita. Il ché getta le basi per una prima domanda filosofica: è lecito considerare un androide un essere vivo?
Blade Runner: cosa significa essere umano?
Come veniamo a conoscenza già nelle prime scene del film, l’unico modo per discernere un androide da un essere umano è attraverso un test dell’empatia, il Voight-Kampff: tramite domande volte a suscitare risposte emotive, il detective Deckard è in grado di stabilire se l’interlocutore sia un essere umano o un “Replicante“; un altro termine singolare utilizzato nella pellicola per identificare la natura dell’androide: scelta peculiare che mira ancora una volta a porre la domanda sull’identità di un androide. Un replicante, in quanto tale, è un “organismo“, come fa notare Roy Batty, leader degli androidi ribelli, al genetista Sebastian, e non un mero corpo composto da circuiti elettronici.
“Penso, dunque sono” continua Roy nel tentativo di spiegare a Sebastian la natura del Nexus-6. Una risposta cartesiana a un dilemma esistenziale: a partire da quale principio è possibile declinare una differenza tra l’uomo e la macchina? Secondo Aristotele, l’uomo è un animale sociale dotato di razionalità, qualità entrambe possedute dai Replicanti, che si riuniscono in gruppo, sviluppano emozioni, desideri e preferenze; “Più umano dell’umano” recita il motto della Tyrell Corporation, l’azienda che si occupa della fabbricazione dei Replicanti.
Uno slogan che in effetti descrive alla perfezione il comportamento dei Nexus 6: sono proprio gli androidi, all’interno della pellicola, ad assumere atteggiamenti prettamente umani; lo vediamo in Rachael, un’androide inconsapevole della sua natura artificiale e che sviluppa sentimenti nei confronti di Deckard fino a salvargli la vita eliminando Leon, un suo simile; lo vediamo nello stesso Leon, dal suo carattere esplosivo, dal suo desiderio di vendicare la morte di Zhora; e lo vediamo nella ricerca ossessiva di Roy Batty, che cerca a ogni costo di ottenere più tempo di vita. Tutto ciò in netta contrapposizione con l’arido cinismo di Deckard, la reclusione sociale di Sebastian che preferisce interagire con bambole meccaniche piuttosto che con altri esseri umani.
Blade Runner e l’intelligenza Artificiale: più umano dell’umano?
In questo contesto, il dilemma di Cartesio diventa più che mai urgente, ponendoci dinanzi la difficoltà dell’affermare con certezza che un Replicante, un’intelligenza artificiale, sia davvero in grado di “pensare“, “dubitare” e, quindi, “scegliere” nell’ambito del libero arbitrio. Lo spettatore non può fare a meno di farsi la medesima domanda: gli androidi sono esseri umani?
Un quesito che trova risposta nell’affermazione di Alan Turing che conclude “il solo modo per cui si potrebbe esser sicuri che una macchina pensa è quello di essere la macchina e di sentire se stessi pensare” . Del resto, la manifestazione stessa di uno stato mentale è indimostrabile se non attraverso il linguaggio (verbale o non) del soggetto che la vive.
Una questione esistenziale che si traduce in una domanda morale: sarebbe lecito empatizzare a tutti gli effetti con un essere artificiale? E, in ogni caso, che responsabilità avrebbe l’uomo nei confronti di un possibile Replicante? Fino a che punto possiamo dire che un androide, per quanto possa essere dotato di algoritmi complessi, è dunque capace di provare realmente sentimenti e stati mentali? E, in ultima analisi, all’interno di un contesto sociale, un androide potrebbe avere diritti alla stregua degli esseri umani?
Domande che non sono tuttavia così distanti dalla nostra realtà, giacché il lavoro sull’I.A. ha raggiunto livelli avanzatissimi. Esempio interessante è l’ormai celebre Sophia, androide costruito nel 2015 a cui è stata concessa la cittadinanza in Arabia Saudita.
Il valore dei ricordi e il simbolismo nel film
Tornando alla pellicola di Blade Runner, nella parte finale del film assistiamo a una delle scene più forti, emblematiche e storiche del mondo cinematografico: il monologo di Roy Batty che ancora una volta mostra l’incredibile componente umana all’interno di un corpo artificiale. L’antagonista per eccellenza diventa il vero eroe della trama al termine di un viaggio alla ricerca di se stesso. Dopo l’incontro con Tyrell, scena dall’indiscutibile carattere religioso, come testimonia la citazione al “figliol prodigo”, Batty, consapevole della sua natura mortale, non può che cadere nella disperazione, sentimento prettamente umano. Un confronto tra padre e figlio, creatore e creatura, Dio e uomo, che culmina in un simbolico omicidio: Roy schiaccia gli occhi di Tyrell a dimostrazione del fatto che quest’ultimo è in realtà cieco, poiché dimentico del dramma della mortalità, incapace di vedere e comprendere un dolore di cui non è partecipe. Roy è l’uomo esiliato dall’Eden, gettato nell’universo e abbandonato a se stesso. Nel non accettare la sua condizione, Batty mostra la più antica delle emozioni umane: la paura della morte. Ed è proprio questo concetto a muovere i fili della sua ricerca, al fine di ottenere più tempo per continuare a esperire, conoscere, scoprire.
“Bella esperienza vivere nel terrore, vero?” dice Roy a Deckerd nello scontro finale, ove quest’ultimo è aggrappato a una trave di ferro sul tetto di un palazzo. Ed è nella medesima scena che il Replicante sublima il suo lato umano mostrando pietà verso il suo nemico. E’ nella paura della morte che le differenze vengono abbattute e Roy riconosce un suo simile a partire da quel terrore, da quella condizione che accomuna ogni essere vivente oltre l’essere uomo e oltre l’essere macchina.
Batty decide di salvare la vita del detective in virtù di quella scoperta, di quella mortalità che vede riflessa nell’altro. Allora il replicante decide di spogliarsi, di “illuminare” il suo carnefice mentre è a un passo dalla morte, conscio che la vendetta perde di significato, che l’odio perde di significato, che la violenza perde di significato: la macchina diventa maestro dell’uomo.
“E’ tempo di morire” conclude Roy con una frase che sembra un memento mori, ma che in realtà diventa un invito ad abbattere le differenze e restituire l’autenticità della vita sulla base della mortalità. Ed è qui che la colomba si libera dalla stretta del replicante per volare nel cielo; un simbolo non solo biblico, ma anche evocativo: l’unico elemento bianco in un film dominato da colori scuri, un simbolo di purezza e di speranza. Una scena notevolmente heideggeriana in cui la differenza uomo-macchina si esaurisce nell’essere per la morte, un concetto che pone la mortalità non come limite temporale, bensì come punto di partenza per definirsi vivi, per definirsi umani.